I Calécc delle Valli del Bitto
Gli escursionisti che percorrono i sentieri delle cosiddette ‘Valli del Bitto’ (5 vallate che orginano dalle aspre vette del Gruppo del ‘Pizzo dei Tre Signori – Monte Ponteranica’, nella porzione occidentale delle Alpi Orobie), spesso si imbattono in strane costruzioni a pianta quadrata di circa 4×4 metri, delimitate da bassi a muretti a secco.

Sono i Calécc: strutture semi-mobili che servivano per la lavorazione del latte direttamente al pascolo, riducendo così rischio di contaminazione e alterazione del latte.
Il formaggio così prodotto, oltre che mantenere i profumi e gli aromi dei pascoli alpini, si prestava a lunghe stagionature, che ne facevano un prodotto prezioso e che poteva sopportare anche lunghi viaggi a dorso di mulo.
Nei secoli passati era un prodotto molto ricercato e apprezzato sulle tavolo di Papi, Dogi e nobili d’Oltralpe, che valeva letteralmente tanto oro quanto pesava.
La struttura leggera del Calécc permetteva un utilizzo razionale e sapiente del pascolo: dopo alcuni giorni in cui il pastore lì viveva e lavorava, la parte mobile (consistente nel telo di copertura e negli attrezzi per la caseificazione) veniva smontata e spostata nella struttura adiacente, sostanzialmente identica e distante poche centinaia di metri.
Così facendo, il pascolo dell’alpeggio viene sottoposto a rotazione, permettendo all’area appena utilizzata di rigenerarsi.
I Calécc, un’invenzione strettamente legata al territorio
L’invenzione del Calécc è da ritenersi strettamente legata alle caratteristiche climatiche e orografiche locali, che determinano un’alta piovosità estiva.
Da un lato, questa favorisce la presenza di pascoli molto ricchi e produttivi, ma dall’altro determinava una difficile conservazione del latte: da qui l’esigenza di lavorarlo direttamente in loco, per abbattere la carica batterica e quindi favorirne la conservazione.

Il latte appena munto (principalmente vaccino, con un’aggiunta di una percentuale variabile tra il 10% e il 20% di latte di capre di razza orobica), veniva quindi riscaldato a 35-37° nella ‘cùldera’, riscaldata da un fuoco di legna di larice (Larix decidua); quindi si aggiungeva il caglio animale e si portava la temperatura a 50-52° in circa 2 ore.
La pasta di formaggio veniva quindi tolta, tramite un telo di lino, e quindi pressata in fascere di legno del diametro di circa 50 cm.
Le forme così originate venivano salate e messe a scolare il siero in eccesso , che veniva recuperato per fare la mascherpa (altro prodotto tipico di queste montagne).
Dopo una stagionatura di almeno 70 giorni, il Bitto era (é) pronto e veniva portato in casera per l’ulteriore invecchiamento (fino a 5-10 anni per le forme più promettenti e pregiate).
Il procedimento tradizionale, a parte la lavorazione in calécc, è ancora seguito da un numero ristretto di alpeggiatori, che, ripetendo antichi e sapienti gesti tramandati da generazioni di casari, mantengono viva la tradizione, producendo un formaggio di eccellenza denominato ‘Storico Ribelle’, presidio Slow Food.
Formaggio prodotto esclusivamente in estate in alpeggio che, abbinato a della bresaola, a del pane nero di segale e annaffiato da un buon bicchiere di Vino Rosso Valtellinese, costituisce una piacevole e corroborante merenda da gustare di rientro dall’escursione ‘Sui Sentieri dello Storico Ribelle’.

Articolo di Giorgio Tanzi
International mountain leader presso UIMLA – Union of International Mountain Leader Associations
Accompagnatore di media montagna presso Guide Alpine Lombardia
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